Ho conosciuto Leonora Carrington grazie a David Bowie.
Nel 2020, in una trasmissione radiofonica, la giornalista Mary Ann Hobbs offrì un interessante punto di vista. Raccontò di essersi imbattuta in un racconto di Leonora Carrington, autrice di cui non conosceva ancora nulla, dal titolo “White Rabbits” e di aver notato delle sorprendenti analogie con il video della canzone “Lazarus”, dall’ultimo album di Bowie, Balck Star (pubblicato l’8 gennaio 2016, due giorni prima della sua morte).
Nel racconto, totalmente surrealista, perturbante e affascinantissimo, si parla di un certo personaggio con la pelle argentea, brillante come stelle, che porta una benda sugli occhi (proprio come Bowie nel video)e si chiama Lazarus.
Ossessionata come sono dai riferimenti, dalle analogie e dai richiami inaspettati, sono andata subito a leggere il racconto. Non fatico a credere che Bowie possa avervi trovato ispirazione. Anzi, mi piace immaginarli, adesso, lui e Leonora, a scambiarsi visioni folli e meravigliose.
Da quel momento mi sono appassionata tantissimo all’arte e alla storia avventurosa di questa artista, ancora oggi troppo poco conosciuta. Ho così scoperto un immaginario ricchissimo e meraviglioso, un mondo popolato da creature invisibili, inquietante, affascinante e anche incredibilmente ironico. L’ho seguita leggendo diverse biografie, studiando le sue opere, addentrandomi nel suo labirinto fatto di rimandi, richiami e racconti che ti avvincono come la tela di un ragno.
La vita di Leonora
La sua lunga vita si è dipanata dal 1917 al 2011 (date, per me, ricche di riferimenti personali, che ho letto come un invito a seguire il filo invisibile della magia).
Nata in Lancashire in una ricca e austera famiglia, ha fin dalla prima infanzia sperimentato il divario incolmabile tra la sua voglia di scoperta, il suo ricchissimo mondo interiore, la sua vena ribelle e l’educazione rigida e formale che soprattutto il padre le voleva impartire. Nella severa dimora vittoriana dove trascorre i primi anni di vita, Crookhey Hall(che sarà poi immortalata in uno dei suoi più celebri dipinti), inizia a dar forma a quelli che saranno i personaggi del suo mondo parallelo; la nursery, teatro dei racconti della nonna materna e della tata irlandese, rappresenta un luogo appartato dal mondo degli adulti, popolato da fate, miti, animali fantastici. Proprio con il mondo animale scoprirà un’affinità particolare durante la sua prima visita al giardino zoologico: un mondo di creature amiche, alter-ego, che tornerà spessissimo sotto molteplici forme nella sua opera pittorica e in quella letteraria.
L’educazione formale di Leonora, in un susseguirsi di espulsioni da isitututi religiosi (fino a farle guadagnare la definizione di “ineducabile”) la fa approdare, nel 1932, a Firenze, alla scuola di Miss Penrose. Qui ha inizio la sua formazione artistica, che prosegue poi a Parigi e a Londra. È nella capitale inglese che entrerà in contatto con l’avanguardia surrealista, e dove si innamorerà prima dell’arte e poi dell’artista che segnerà il successivo svolgersi degli eventi fondamentali della sua vita: Max Ernst. Per Leonora il mondo surrealista è qualcosa che sente subito familiare, un dar voce a ciò che ha sempre sentito dentro di sé: “ho subito sentito che era un universo a me familiare, dove era possibile collegare mondi diversi attraverso i sogni o l’immaginazione”. Con Max, amante e maestro, Leonora vive anni incantati, immersa nel mondo surrealista sebbene, come dirà lei stessa in un’intervista, fosse “in balia del suo amante”; le donne, nell’ambiente surrealista, erano comunque viste come inferiori, più come muse che come artiste e lei questo divario non lo accetterà mai. Leonora seppe essere musa di se stessa.
Gli anni felici con Ernst sono destinati a finire con lo scoppio della guerra: tedesco in Francia, perde la liberà nel 1940. Leonora, rimasta sola e impotente nella loro casa di Saint Martin d’Ardèche, fugge in Spagna con due amici di famiglia, ma qui, a causa di un grave crollo nervoso, perde il senso della realtà a tal punto che viene fatta internare nel manicomio di Santander. Questa terribile esperienza la segnerà nel profondo, (la racconterà in Down Below), ma riuscirà a riemergere anche da questo abisso: la ritrovata sanità mentale la renderà una Leonora nuova, disincantata, “una vecchia signora a 26 anni”, come dirà lei stessa, ma con la sua straordinaria mente artistica ancora più ricca di visioni, personaggi, storie da raccontare.
Dopo la fuga da Santander, con l’aiuto di Renato Leduc, amico diplomatico che la sposa per salvarla e darle la nazionalità messicana, nel ’41 Leonora è a New York e infine, nel ’43, in Messico.
In quella che sarà la sua patria adottiva, dove trascorrerà il resto della sua lunga vita, Leonora e Renato pongono fine al matrimonio di convenienza e lei sposa, nel ’46, il fotografo di origine ungherese Chiki Weizs, padre dei suoi due figli e compagno per i successivi 60 anni.
Per Leonora il Messico è un mondo totalmente nuovo, esotico eppure familiare. Gli elementi della poetica surrealista sono sorprendentemente affini alla tradizione messicana, all’arte popolare, alla simbologia che permea questa cultura. Leonora fa resuscitare i miti della sua infanzia in una nuova forma, arricchisce il suo bestiario personale, compone il suo mondo visivo e pittorico, si approccia, negli anni messicani, allo studio del’alchimia, dell’esoterismo, dei tarocchi, degli archetipi junghiani.
Fonde culture, miti, simboli, in un’interpretazione personale, sempre nuova; sperimenta tecniche diverse, asseconda i movimenti della sua personalità inquieta per non perdere mai la curiosità e la voglia di scoperta.
Leonora per me oggi è la forza verso cui tendo. Guardare nell’abisso e riemergere con lucida consapevolezza e ironia, persino. Mi ha insegnato a guardare e amare le ombre, a non sforzarmi di illuminare ciò che invece può essere bellissimo nell’oscurità. A dare un’interpretazione personale, a comprendere per sovvertire le regole. In questi mesi di lavoro parallelo e sotterraneo mi sto finalmente concedendo di esplorare, di spostare il punto di vista, di non farmi spaventare da dove mi porterà. Ho accettato che a volte si può dipingere anche tenendo un libro in mano, invece che un pennello, quando si è impegnati a costruire i proprio mondo; che l’arte è un linguaggio che non ci si deve sforzare di razionalizzare o comprendere, che tutte le mie sfaccettature possono rivelarsi interessanti e aver qualcosa da dire. La complessità di questa metamorfosi mi intriga e mi incuriosisce, e la tensione che sento verso una crescita e un approfondimento dei temi che mi appassionano è la rinnovata energia che accompagna questo percorso.
* “una poesia che cammina, che a un tratto sorride e si trasforma in un uccello, e poi in un pesce, e poi scompare.” Così scrive di lei Octavio Paz.